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Il tennis maledetto di Caravaggio

Si può uccidere per il tennis? Ben prima delle intemperanze di John McEnroe, la storia dell’arte ci offre un interessante episodio di diverbio sportivo, sfociato in un terribile omicidio.

John McEnroe – Laver Cup 2019 – foto di Roberto Dell’Olivo

L’ANTEFATTO

La sera del 28 maggio 1606, a Roma, si verificò un fatto che cambiò per sempre il destino di Michelangelo Merisi, più comunemente noto come Caravaggio. Quel giorno, all’interno di un capannone in legno nei pressi di Campo Marzio, si stava disputando una partita di pallacorda, l’antenato dichiarato del nostro tennis.

Un presunto fallo di gioco scatenò un acceso diverbio che, ben presto, si tramutò in scontro fisico: il pittore ne uscì ferito mentre il rivale, Ranuccio Tomassoni da Terni, venne colpito a morte. Lo spadino di Caravaggio si era spinto, pericolosamente, nella zona del “gioielli di famiglia”: non voleva uccidere Ranuccio, ma forse ancor peggio, intendeva evirarlo. Purtroppo sbagliò e lo colpì nel “pesce della coscia”, recidendogli l’arteria femorale.

In realtà tra i due c’era un’ostilità di lungo corso, forse motivata da ragioni politiche, gelosie sentimentali oppure, molto più probabilmente, per un debito che Caravaggio non aveva ancora onorato.

Certo è che i due uomini non potevano essere più diversi per indole e carattere. Tomassoni era un giovane ricco e di buona famiglia, Caravaggio si era fatto strada a fatica, grazie al suo talento. Tomassoni era un lenone al soldo dei prelati, Caravaggio era schiavo solo delle sue passioni. Sfortuna volle che quel Ranuccio fosse molto vicino al nuovo papa Paolo V e così, quella che poteva essere archiviata come una disgraziata rissa di strada, costò una pena capitale al malcapitato Caravaggio.

Costretto a fuggire da Roma, cominciò il suo lungo esilio che durerà fino al 18 luglio 1610, giorno della sua morte.

Il Colosseo – Roma

IL DIPINTO

Nei giorni dell’omicidio si trovava a Roma Gianbattista Marino, secondo alcune fonti sarebbe stato addirittura il compagno di Caravaggio in quella maledetta partita. Comunque sia, su sue indicazioni venne realizzato un quadro “curioso”, che avrebbe dovuto testimoniare il pentimento di Caravaggio ed ingraziarsi il perdono del papa.

Incerta è la paternità del dipinto, forse realizzato da Cecco del Caravaggio allievo prediletto del maestro, mentre il soggetto risulta molto più chiaro alla luce degli accadimenti. L’opera, intitolata “La morte di Giacinto”, mette in scena la tragica fine del principe spartano sorretto dalle braccia di Apollo. Potrebbe essere una raffigurazione come tante, se non fosse per due racchette, poste in primo piano, oggetti del tutto inusuali per un tema mitologico. In realtà l’insolita iconografia, oltre ad alludere alla vicenda caravaggesca, si rifà ad un testo di Giovanni Andrea dell’Anguillara che, nel 1561, diede alle stampe una versione più disinvolta de “Le Metamorfosi” di Ovidio.

ARTE E SPORT – La morte di Giacinto – a destra il particolare della racchetta  

Volendo attualizzare il mito antico, Anguillara inserì nelle storie elementi di forte contemporaneità. Ecco che allora l’episodio di Giacinto, ferito a morte durante una gara di lancio con il disco, si tramutò in un’improbabile partita di tennis dove fu una pallina, scagliata con troppa forza dall’avversario, a lasciarlo senza vita. 

Ai nostri giorni la cosa potrebbe risultare esagerata, se si pensa alle nostre palline da tennis, dolorose, ma non letali; la pesante sfera di cuoio usata nella pallacorda, invece, ha mietuto più di una vittima all’epoca.

È su tali basi che l’autore eseguì questa tela, sovrapponendovi limpidi richiami biografici ad allusioni simboliche. Se Giacinto agonizzante è Ranuccio Tomassoni, allora Apollo che lo sorregge è Caravaggio: l’atmofera è emozionante e ricca di pathos, mostrando il grande dolore di Apollo alias Caravaggio e il suo rimorso per il drammatico incidente. In una sorta di profana Deposizione Caravaggio sembra implorare tutta la nostra comprensione.

Le racchette, le armi della sfida, assomigliano molto a delle Donnay Allwood, come quelle che usava Bjorn Borg, o delle Wilson, insomma racchette vintage, di fine anni Settanta ed inizi anni Ottanta. 

Il mare tra Normandia e Bretagna. Il dipinto La morte di Giacinto si trova in un museo di una cittadina francese, che si affaccia direttamente sulla Manica

L’opera, conservata al Museo Thomas-Henry di Cherbourg-en-Cotentin, risulta anche uno straordinario documento antropologico, dal momento che testimonia l’ascesa dello sport nella società: non solo e soltanto un gioco, ma un’attività agonistica dove le passate contese cavalleresche stavano prendendo una nuova forma.

Barbara Meletto

CHE COINCIDENZA Quando con Barbara abbiamo parlato di sport ed arte, mai avrei pensato che la cosa mi sarebbe diventata subito così familiare. In effetti il quadro La morte di Giacinto è stato oggetto di attenzione niente meno che dello Scriba, in arte Gianni Clerici.  Che ho avuto l’onore di conoscere e anche avere come compagno di banco al Roland Garros di qualche anno fa.  Ora Gianni si limita a scrivere di tennis sul quotidiano La Repubblica, ma stava al tempo  lavorando ad un libro  Il tennis nell’arte: racconti di quadri e sculture dall’antichità ad oggi, pubblicato nel 2018. 

Con Gianni Clerici al Roland Garros

E’ con ancora maggior piacere che in RDOSPORT, ci divertiremo ad approfondire  il tema ARTE e SPORT, con gli occhi appassionati di  Barbara, che ringrazio fin d’ora per il tempo che vorrà dedicarci.

Potete seguirla nel suo blog: barbarainwonderlart.com

Barbara Meletto, laureata in Lettere con una specializzazione in Storia della Critica d’Arte. Sono nata tra quelle splendide montagne che hanno dato i natali a Tiziano e che hanno fatto innamorare un milanesissimo Dino Buzzati: le Dolomiti sono la mia patria, Venezia è la mia terra. L’arte per me è studio, ma soprattutto passione, dedizione e amore, un amore viscerale che desidero condividere. L’arte per viverla bisogna amarla!

Barbara Meletto

Non aver paura della perfezione: non la raggiungerai mai (Salvador Dalí).  In un mondo imperfetto, l’arte è ciò che più ci avvicina a quell’idea di compiutezza che è propria della sfera divina. Se dunque, come sosteneva Dalí, non raggiungeremo mai la perfezione, almeno possiamo avvicinarci a quel divino che è presente in ognuno di noi.

 

 

 

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