US OPEN, IL TENNIS DEL NUOVO MONDO
di Barbara Meletto (barbarainwonderlart.com)
“Il tennis è ben più di uno sport. È un’arte, come il balletto. O come il teatro. Quando scendo in campo mi sento come Anna Pavlova, o come Adelina Patti, anche come Sarah Bernhardt. Vedo le luci della ribalta, sento i gemiti del pubblico.” (Bill Tilden)
Ultimo appuntamento del Grande Slam, l’US Open è il torneo più ricco della stagione tennistica, a conferma che gli americani quando fanno le cose le fanno in grande!
US OPEN, LE ORIGINI
Il 23 febbraio 1874 il Maggiore Walter Clopton Wingfield depositò, presso la Chambre des Métiers di Londra, il brevetto del suo svago preferito, da lui battezzato Sphairistike. Con questo atto ufficiale nacque il tennis moderno.
Tra l’alta società del tempo si generò subito un certo entusiasmo per il nuovo passatempo: un’attività che si poteva fare all’aria aperta e consentiva alle donne di intrattenersi con gli uomini.
Dall’Inghilterra il tennis si diffuse nel resto dell’Europa, raggiungendo in breve tempo anche l’America e l’Australia.
Negli Stati Uniti il gioco era praticato dall’upper class affermandosi dapprima nelle località di villeggiatura: lo sviluppo del turismo si affiancava alla nascita di un correlato mercato dell’intrattenimento.
Nel 1881 venne fondato l’Us National Lawn Tennis Association, con lo scopo di promuovere e standardizzare le regole del tennis. Il 31 agosto dello stesso anno fu indetto il primo campionato nazionale, l’Us National Singles Championship for Men, il precursore del nostro US Open.
Perfettamente in linea con le origini elitarie dello sport, questo torneo inaugurale si disputò tra venticinque partecipanti, accompagnati da un quartetto d’archi, nel campo in erba del lussuoso Newport Casino di Rhode Island. Il bostoniano Richard Dudley “Dick” Sears fu il primo campione, conquistandosi sette titoli consecutivi, merito anche del challenge round, ossia il sistema che garantiva al vincitore dell’anno precedente di accedere direttamente alla finale.
US OPEN, L’EVOLUZIONE
Quello che era sorto come sfizioso divertimento per famiglie danarose, si trasformò rapidamente in un grande business: l’aumento del pubblico e dei giocatori in campo portarono ad una sorta di liberalizzazione del tennis e alla sua commercializzazione. L’ameno spazio di Newport venne ritenuto superato e così la United States Lawn Tennis Association decise di trasferire il torneo a New York, al West Side Club di Forest Hill.
“Newport perde il torneo di tennis 129 voti a 119 per spostarlo al West Side Club, Forest Hill”, titolava un pezzo del “New York Times” del 6 febbraio 1915. Qui la manifestazione rimarrà per oltre sessant’anni, e precisamente fino al 1978, anno in cui troverà la sua sistemazione, che è ancora quella attuale, al Tennis Center di Flushing Meadows, nel distretto del Queens.
Oltre ai tre cambi sede, il campionato americano ha conosciuto anche tre cambi di terreno: dalla verde erbetta di Newport e New York fino al 1974, per poi passare all’attuale cemento, transitando per un periodo di tre anni sulla terra battuta. L’unico campione che ha avuto l’onore di vincere su tutte e tre le superfici fu Jimmy Connors, superando qualsiasi tipo di specializzazione.
“In un’epoca di specialisti, o sei uno specialista della terra battuta, o sei uno specialista dell’erba o sei uno specialista dei campi in cemento, oppure sei Roger Federer” (Jimmy Connors)
Dopo un lungo scontro tra professionisti ed amatori, nel 1968 il torneo divenne US Open, decretando così la fine del tennis dilettantistico. La prima finale Open passò alla storia poichè, in un’epoca di lotte per i diritti civili, vinse un afroamericano, Arthur Ashe. Un vero e proprio evento per uno sport tradizionalmente associato ai privilegi dell’uomo bianco.
Numerosi avvenimenti hanno contribuito a fare degli US Open una pietra miliare del tennis. Prima di tutto, grazie alle battaglie condotte dalla tennista Billie Jean King, questo fu il primo torneo ad introdurre la parità di premi fra uomini e donne; una parità apparente, che a tutt’oggi riguarda solo i tornei del Grande Slam. Se non si è ancora raggiunta l’eguaglianza totale, almeno è stato reso onore al nome di Billie Jean King dedicandole il centro sportivo di Flushing Meadows!
“Se un uomo e una donna fanno lo stesso lavoro, dovrebbero ricevere la stessa retribuzione. Lo sport è sempre stato storicamente un’industria maschile ed è importante che le donne si facciano sentire per orientare il cambiamento.” (Johanna Konta)
Gli US Open sono stati i primi ad inserire il tie-break, utilizzato poi anche in altri sport, a giocare in notturna nel 1975, e a sperimentare nel 2006 l’hawk-eye, un sistema di moviola che consente di superare le controversie tra atleti e giudici di gara. Un altro primato riguarda l’Arthur Ashe Stadium, il campo centrale che solitamente ospita la finale; con i suoi 23.771 posti è l’arena di tennis più grande del mondo.
“La gente è così vicina, sei così a contatto con la folla, lo stadio è più grande e può diventare molto rumoroso. Prima della fine, succede sempre qualcosa. E poi c’è la musica nei break, c’è un’elettricità nell’aria che non trovi in nessun altro torneo, e ancor meno in uno Slam. Puoi allenarti contro tanti pericoli, anche mentalmente, ma qui, dagli spettatori, non sai mai cosa aspettarti.” (Roger Federer)
BILL TILDEN, LA STAR
Gli US Open devono moltissimo a Bill Tilden, colui che vendette letteralmente il tennis all’America. Attore, scrittore, commediografo, ma soprattutto campione assoluto, venne definito il “Leonardo da Vinci del tennis”.
William Tatum Tilden II, questo il nome completo, nacque il 10 febbraio 1893 a Germantown, paese indipendente fondato dai quaccheri tedeschi, oggi assorbito nella città di Filadelfia. Proveniente da una famiglia molto ricca, il padre era un mercante di lana e politico locale mentre la madre era una pianista, vide ben presto sgretolarsi la sua vita così perfetta. Le tre sorelle morirono durante l’infanzia, l’adorata madre nel 1911, il padre ed il fratello Herbert, suo primo e unico maestro di tennis, se ne andarono nel 1915, lasciandolo distrutto dal dolore.
Il tennis fu per lui un rifugio, una sorta di valvola di sfogo. Non volle nessun allenatore e ottenne il successo relativamente tardi, a ventisette anni di età, trionfando a Wimbledon nel 1920. Da quel momento la sua stella non smise di brillare: per un decennio, dal 1920 al 1930, Bill Tilden dominò la scena tennistica internazionale. Batterlo era impossibile. E questo nonostante l’amputazione, avvenuta nel 1922, di quasi tutto il dito medio della mano destra, che lo costrinse ad utilizzare manici più piccoli e a modificare il suo gioco.
“Avevano tutti una gran voglia di vedermi finito, ma ovviamente non potevo dar loro questa soddisfazione.” (Bill Tilden)
Il suo nome divenne così popolare, da essere scomodato perfino da Vladimir Nabokov, sotto le spoglie di Ned Litam (nome che letto al contrario è Ma Tilden, un altro dei soprannomi di Bill), per fargli impersonare il ruolo del maestro di tennis della sua Lolita. Nabokov ritrasse Tilden come un ex-campione, circondato da uno stuolo di attraenti ball boys, alludendo ad un aspetto della vita privata del campione: la sua attrazione per i ragazzini che lo portò a subire due arresti per omosessualità, costandogli diciotto mesi di carcere e l’onta del disonore.
“Cercai di insegnarle a giocare a tennis, per avere più passatempi in comune; da giovane ero stato un buon giocatore, ma come maestro mi rivelai un disastro, e così, in California, le feci prendere una quantità di costosissime lezioni con un maestro famoso, un veterano robusto e rugoso circondato da un harem di raccattapalle; fuori dal campo sembrava uno spaventevole relitto, ma a volte, durante la lezione, per mantenere il ritmo, sfoggiava un colpo simile a uno squisito fiore primaverile, e con un suono metallico rimandava la palla all’allieva, e quella potenza delicata, assoluta, divina mi riportò alla mente che trent’anni prima lo avevo visto, lui, proprio lui, battere il grande Gobbert a Cannes!” (Vladimir Nabokov, “Lolita”, 1955)
Ma l’istrionica e controversa figura di Tilden, oltre che per i record ed i successi sportivi, va sicuramente ricordata per il contributo che diede alla democratizzazione del tennis. Lui che era nato da una stirpe di baroni di antica origine inglese, fece in modo che il tennis fosse alla portata delle masse, consentendo anche alla gente di umili origini di prendervi parte. Primo tennista uomo a diventare professionista nel 1926, insieme a Suzanne Lenglen è stato l’attrazione principale degli stadi. Vederlo giocare era uno spettacolo, “era come osservare Nijnsky ballare dall’altra parte della rete” – stando alle parole di Manuel Alonso – aveva gambe fenomenali, un’agilità eccezionale, un rovescio solidissimo e un magico servizio. Ma la sua dote principale, quella che l’ha reso invincibile per lungo tempo, fu quella di saper leggere il gioco dell’avversario, smontandolo pezzo dopo pezzo.
“Molti grandi incontri sono stati vinti da colui il quale ha usato la giusta soluzione nel luogo e nel momento adeguato. Ho sentito alcuni giocatori sostenere che l’attacco è il solo obiettivo che si prefiggono, mentre altri affermare il contrario, ossia che la difesa è la sola cosa necessaria. In verità non esiste attacco senza difesa né difesa senza attacco.” (Bill Tilden)
Fu il precursore del mental coaching, definendo l’importanza della preparazione mentale, e non solo fisica, per affrontare l’avversario. Nei suoi testi specialistici spese molte parole per approfondire gli aspetti tecnici e quelli psicologici del gioco: “Match Play and the spin of the ball” del 1925 è un testo sacro del tennis, un manuale completo che riscrive la grammatica del tennis, con concetti ancora attuali o addirittura all’avanguardia.
IL DIPINTO
Gli esordi del grande Tilden non furono così rosei, anzi furono decisamente medriocri: nel 1912, al primo turno del torneo di Newport, lo troviamo sconfitto da tale Wallace Johnson. Trascorsero anni di duro lavoro prima che Bill ci riprovasse, arrivando in finale del Campionato Nazionale del 1918, dove venne battuto da Lindley Murray. Ma Tilden non si diede per vinto e trascorse l’inverno seguente a Providence, nel Rhode Island, presso il campo coperto di un ricco magnate, J.D.E. Jones, per studiare un nuovo e più efficace rovescio.
In quello stesso anno il Newport Lawn Tennis Club organizzò un torneo su invito. Fra i partecipanti vi furono il nostro Bill Tilden ed il pittore George Wesley Bellows, sublime interprete della società americana a lui contemporanea. Per una settimana sulla curatissima erba del Newport Casino si affrontarono giocatori leggendari.
George Bellows, tra un match e l’altro, si dilettava ad osservare i suoi rivali in campo e gli avventori del club. Affascinato da questo ambiente squisitamente elegante, l’artista realizzò quattro grandi dipinti e due incisioni su questo soggetto.
“Tennis at Newport” (Tennis a Newport), dipinto nel 1920 e oggi custodito al Virginia Museum of Art di Richmond, è una delle opere ispirate da questo esclusivo evento sportivo.
Con uno stile fresco e leggero Bellows ci descrive l’atmosfera raffinata del club: uomini e donne elegantemente vestiti, intenti a conversare e a sollazzarsi mentre si sta disputando un doppio. L’intento è quello di farci partecipi di un mondo dove il tennis è un segno di distinzione sociale. Sono ancora anni pioneristici ed elitari, ma una rivoluzione era già in atto.
Il Newport Casino, per la sua rilevanza storica e architettonica, venne designato monumento nazionale nel 1987. Questo edificio, dall’insolito stile vittoriano, è oggi sede di uno dei più bei musei del mondo dedicati al tennis e dell’Hell of Fame Tennis Championships, unico torneo su erba degli Stati Uniti.
Da Newport il tennis americano ne ha fatta di strada, ma non possiamo scordarci di questo piccolo pezzo di Nuovo Mondo che può permettersi di confrontarsi, senza timore, con le tradizioni dei lontani parenti del Vecchio Continente.
“Io mio padre sono arrivato a capirlo. È arrivato dall’Iran e a noi figli ha voluto regalare il sogno americano, lui non aveva mai potuto scegliere. Avevo sette anni quando mi disse che sarei diventato numero uno. Per lui contavano forza e disciplina, non il calore umano né la fragilità. Ora ci abbracciamo, ma prima evitava ogni contatto fisico. Solo quando mi ha visto a pezzi all’Us Open del 2006, allora ha odiato anche lui il tennis e ha realizzato quanto fisicamente mi avesse fatto male dare tutto.” (Andre Agassi)