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Psicopatologia del tennis

di Barbara Meletto (barbarainwonderlart.com)

“Le verità rivelate dalla mia teoria dell’Istinto Tennistico sono così pericolose, così provocatorie, che forse dovrebbero esser taciute per sempre.” (Sigmund Freud)

Chi poteva immaginare che Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fosse un grande appassionato di tennis? La straordinaria rivelazione si verificò nella primavera del 1980 quando, durante un’asta di cimeli freudiani battuta da Sotheby’s, il dottor Theodor Saretsky acquistò un baule appartenuto al medico austriaco. Rovistando nell’antico cassone, Saretsky trovò delle pagine ingiallite che facevano parte di un manoscritto datato 1938; il titolo era a dir poco sorprendente: “Prima raccolta delle opere tennistiche di Sigmund Freud.”

la svizzera Bacsinzki al Roland Garros

Un’attenta lettura del testo portò ad una curiosa scoperta: non solo Freud amava il tennis, ma giunse perfino a collegarlo al sesso, una delle sue più grandi ossessioni. Secondo Freud, infatti, il tennis consisteva in una pulsione umana ben più forte e radicata degli istinti sessuali.

“La grande libido del tennis finirà col togliere alla pulsione sessuale il potere che esercita sulla psiche umana, per trasferirlo su qualcosa che ha radici ben più profonde: la perenne ricerca di campi coperti disponibili nelle prime ore del mattino.” (Sigmund Freud)

All’epoca in cui Freud elaborò questa teoria il tennis era uno sport diffuso e praticato sia a livello amatoriale che agonistico, per questo motivo offriva un punto di osservazione privilegiato per studiare i comportamenti e le nevrosi dell’uomo contemporaneo. Il campo da tennis si presentava come una grande metafora dell’esistenza e non solamente come un mero terreno di gioco.

“Tutte le conquiste culturali di cui l’uomo va tanto fiero, tutti i suoi valori spirituali sono semplici sublimazioni delle pulsioni istintuali elementari di cui il sesso e il tennis sono le più fondamentali.” (Sigmund Freud)

Spettatrice sugli spalti di un campo da tennis

LOLITA DI VLADIMIR NABOKOV

L’affinità che Freud intravide tra l’arte della racchetta e l’ars amatoria trovò altra esemplare consacrazione nel celebre romanzo di Vladimir Nabokov, “Lolita”. Il libro, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1955, racconta il delirio passionale del maturo protagonista, Humbert, nei confronti della sua giovanissima figliastra, Dolores, alias Lolita.

In questo contesto morboso, ai limiti della patologia, il tennis riveste un ruolo fondamentale, attestandosi come lo strumento diabolico in grado di sfondare le deboli difese dell’impube “ninfetta”.  

Memorabili sono le descrizioni degli allenamenti, le lezioni, i match, dove Lolita brilla per il suo talento inespresso, ma anche per la grazia dei suoi movimenti.

Un diritto e la su ombra. Dettagli da un capo di tennis (©rdosport)

“[…] la goffa Lo dava un gran colpo alla palla e la mancava, e imprecava, e mandava in rete un simulacro di servizio, e mentre brandiva sconsolata la racchetta mostrava la giovane, umida, luccicante peluria delle ascelle, e la sua ancor più inesperta compagna si gettava diligente su ogni palla e non ne prendeva una, ma entrambe si divertivano un mondo, e con squillanti stridolini marcavano minuziosamente il punteggio della loro inettitudine.” (Vladimir Nabokov, “Lolita”, 1955)

Il tennis è il fil rouge dell’intero romanzo, presente sotto forma di allusioni, citazioni e simbologie, ponte comunicativo fra Humbert e Lolita, superba metafora della vita intesa come continua competizione individuale, ma anche specchio dei miti e delle fissazioni della società americana del tempo.

Caroline Wozniacki con il trofeo conquistato all’Australian Open (©foto di Roberto Dell’Olivo)

TENNIS-MANIA

Se è evidente la componente sensuale legata al gesto sportivo, altrettanto palese è la sua relazione con il mondo delle ossessioni.

I tennisti sono diventati celebri non solo per le loro performance agonistiche, ma anche per le loro curiose abitudini, sfoderate soprattutto nei momenti di maggior concentrazione. Capita spesso di vedere gli atleti sistemarsi la maglietta, aggiustarsi la visiera del cappellino oppure toccarsi i capelli: gesti ripetuti in modo compulsivo da trasformarsi in vere e proprie manie. 

Rafa Nadal- Roland Garros (©foto di Roberto Dell’Olivo)

Leader incontrastato dei rituali scaramantici è Rafael Nadal. Classe 1986, lo spagnolo passerà sicuramente alla storia come uno dei campioni più superstiziosi. Dall’inizio del match alla premiazione finale, quello di Nadal è un balletto di movimenti diventati atteggiamenti connaturati. Esattamente quarantacinque minuti prima di ogni partita si concede una doccia ghiacciata; entra in campo con il borsone adagiato sulla spalla destra impugnando la racchetta con la mano sinistra; al cambio campo attende che sia l’avversario ad oltrepassare per primo la rete, schivando la riga ogni volta che deve avvicinarsi alla sua sedia.

Durante le pause del gioco sistema in modo compulsivo le bottigliette e copre con l’asciugamano le gambe tremolanti.

Prima di ogni servizio si mette in ordine i pantaloncini, tocca la spalla sinistra, quella destra, il naso, sposta i capelli dietro l’orecchio sinistro, di nuovo grattatina al naso per chiudere, in modo trionfale, con la sistematina dei capelli dietro l’orecchio destro. Ripetizioni finalizzate a raggiungere la giusta concentrazione mentale e che rispecchiano la meticolosità dell’atleta.

Nadal con Federer nel doppio giocato nella prima edizione della LAver Cup a Praga. (©foto di Roberto Dell’Olivo)

In grado di rivaleggiare con Nadal nei suoi cerimoniali di pre-servizio è stato il grande Andy Roddick: un repertorio di movimenti frenetici a cui corrispondeva una battuta impeccabile. Anche Djokovic, con i suoi palleggi infiniti, e McEnroe, con la sua preparazione complessa prima di colpire la palla, sono catalogabili tra gli atleti più compulsivi. 

John McEnroe – Laver Cup 2019 – foto di Roberto Dell’Olivo

Ma anche le donne non sono da meno: dal terrore di mettere i piedi sulle righe del campo che tormenta la bella Maria Sharapova, agli ancheggiamenti frenetici di Serena Williams mutuati dalla connazionale Zina Garrison.

Maria Sharapova – Roland Garros – foto di Roberto Dell’Olivo

Tutti i tennisti hanno almeno una fissazione, evidente o impercettibile, confessabile o inconfessabile, capace di offrire loro la forza necessaria per affrontare le sfide di uno sport molto competitivo e decisamente selettivo.

“Qualcuno la chiama superstizione, ma non lo è. Se così fosse perché continuerei a farlo indipendentemente dalle vittorie o dalle sconfitte? È un modo per mettere me stesso dentro la partita, per mettere in ordine le mie priorità mentali. È come una routine, quando faccio queste cose vuol dire che sono concentrato, che sono focalizzato sulla partita. Non è qualcosa che mi serve fare, è qualcosa che voglio fare.” (Rafael Nadal)

IL DIPINTO

Sia nella sua componente erotica che in quella maniacale, il tennis risulta una sorta di chiave di volta per sondare la modernità, con tutto il carico di devianze che porta con sé.

Nel 1926, in quel periodo di riflessione compreso tra le due guerre, l’artista tedesco Anton Räderscheidt tradusse in immagine l’ossessione psicopatologica dell’uomo occidentale per il tennis. “Die Tennisspielerin” (La tennista), oggi custodito alla Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera, ci mostra una più che insolita giocatrice di tennis.

Anton Räderscheidt ,Die Tennisspielerinnis, 1928

In primo piano troneggia la figura di una donna con una racchetta in una mano e una pallina nell’altra. Dietro di lei un uomo la sta osservando. La donna è nuda, mentre l’uomo indossa abiti eleganti, più adatti ad un ricevimento che ad un campo da tennis. L’uomo è piccolo, la donna ha delle dimensioni monumentali. Uomo e donna sono distanti, lontani, a rimarcare l’inconciliabilità tra i sessi, qui definita anche attraverso la separazione fisica offerta dalla rete. 

La russa Kirilenko al Roland Garros (©foto di Roberto Dell’Olivo)

Anche a prescindere dalla divisione spaziale, pare impossibile una relazione tra le due figure così diverse e distaccate: è la donna la vera protagonista, è lei che tiene il gioco tra le mani. L’uomo è solamente uno spettatore passivo, confinato fuori dal campo. E per rimarcare ancora di più questi due universi inconciliabili, l’artista ha messo in scena la sua stessa esistenza: l’uomo con la bombetta è un autoritratto del pittore, mentre la donna è modellata sulla figura della moglie, Marta Hagemann. 

Ecco che una vicenda personale, il difficile rapporto tra l’artista e la compagna, viene investita di un valore universale. L’opera interpreta perfettamente il senso di isolamento a cui la società industriale ci costringe: ognuno è solo, immerso nella propria alienazione, nelle proprie fobie e patologie, delle quali il tennis è un elemento fortemente evocativo. 

“Prima di lanciarsi nel servizio aspettava, rilassandosi per una o due battute di tempo rigato di bianco, e spesso faceva rimbalzare un paio di volte la palla, o raspava un po’ il terreno, sempre a suo agio, sempre piuttosto vaga sul punteggio, sempre allegra come lo era così di rado nella tetra esistenza che conduceva a casa. Il suo tennis era il punto più alto al quale, per quanto io riesca a immaginare, una giovane creatura possa portare l’arte della finzione, anche se per lei, probabilmente, esso era soltanto la geometria della più semplice realtà.” (Vladimir Nabokov, “Lolita”, 1955)

 

 

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