Matteo Berrettini, un campione in erba
Arriveranno, arriveranno. Jannik Sinner e Lorenzo Musetti arriveranno.
Ma l’Italia del tennis può permettersi il lusso di non dover pensare troppo al futuro, perché il suo presente è scintillante ed entusiasmante. Ed ha il volto pulito ed il tennis esplosivo di un ragazzo romano che ha la più grande qualità che rendono i grandi giocatori dei campioni: l’umiltà.
Ma l’Italia del tennis può permettersi il lusso di non dover pensare troppo al futuro, perché il suo presente è scintillante ed entusiasmante. Ed ha il volto pulito ed il tennis esplosivo di un ragazzo romano che ha la più grande qualità che rendono i grandi giocatori dei campioni: l’umiltà.
Matteo Berrettini è un campione, c’è poco da discutere. E da campione ha vinto il torneo del Queen’s, prestigioso prologo dei Championship’s che tra una settimana prenderanno il via a Wimbledon.
Qualcuno, forse poco avvezzo alle mille e tortuose vie della carriera di un tennista, aveva storto il naso nel 2020, dopo la clamorosa esplosione del 2019, quando Matteo in un sol colpo aveva centrato la semifinale degli Us Open e raggiunto la qualificazione alle Atp Finals, traguardi che per il tennis italiano sembravano chimere fino a qualche mese prima. “Farà la fine di Cecchinato” era la frase più gettonata, sparata lì senza capire cosa potesse significare stare fermo per mesi per un giocatore con il fisico di Matteo.
Qualcuno, forse poco avvezzo alle mille e tortuose vie della carriera di un tennista, aveva storto il naso nel 2020, dopo la clamorosa esplosione del 2019, quando Matteo in un sol colpo aveva centrato la semifinale degli Us Open e raggiunto la qualificazione alle Atp Finals, traguardi che per il tennis italiano sembravano chimere fino a qualche mese prima. “Farà la fine di Cecchinato” era la frase più gettonata, sparata lì senza capire cosa potesse significare stare fermo per mesi per un giocatore con il fisico di Matteo.
Ma il tempo è galantuomo e Berrettini, con la sapiente guida del “fratello maggiore” Vincenzo Santopadre, ha continuato a scrivere pagine di storia del tennis italiano.
Dopo essere diventato a Parigi il primo azzurro a centrare gli ottavi di finale in tutti e quattro i major (e a mettere paura a Re Nole), Matteo, ha per la prima volta fatto svettare il tricolore in uno dei tornei più antichi del mondo. Su quell’erba che storicamente è la superficie più indigesta per i nostri giocstori e che invece sembra adattarsi a meraviglia al tennis del venticinquenne romano.
Un servizio così non lo abbiamo mai visto da queste parti e probabilmente nemmeno un dritto così ficcante.
Un servizio così non lo abbiamo mai visto da queste parti e probabilmente nemmeno un dritto così ficcante.
Ma a questi due fondamentali da top-5 al mondo, Matteo ha saputo aggiungere un back di rovescio che sui prati si trasforma da colpo difensivo ad arma efficace per scardinare gli ingranaggi avversari. Se ci aggiungiamo che il tocco e il gioco di volo sono di primo ordine, capirete perché sognare in vista di Church Road non è peccato.
Nell’ultima edizione giocata di Wimbledon prima della pandemia, quella del 2019, Matteo si spinse sino agli ottavi di finale, quando fece in un sol colpo “la conoscenza” del Centre Court e di un tipo che da quelle parti aveva vinto 8 volte e regalato magie di ogni tipo. Con quel “Quant’è per la lezione, Roger?” scambiato a rete con Sua Maestà a fine match, Matteo conquistó anche gli inglesi ma statene certi, se dovesse ricapitare, non si farà paralizzare nuovamente dalla sindrome di Stendhal.
In ogni caso, non c’è bisogno di guardare troppo in là per cercare quello che l’Italia del tennis desidera da anni. Il suo campione con la racchetta il bel paese ce l’ha tra le mani e chissà che tra qualche settimana l’erba più famosa del mondo costringerà anche gli ultimi scettici ad arrendersi all’evidenza.