Anche il tennis è vanità
di Barbara Meletto (barbarainwonderlart.com)
Chi l’avrebbe mai detto che una racchetta da tennis potesse essere uno dei simboli della vanitas, ossia di quell’ eccessivo attaccamento ai beni materiali, così futili e di breve durata?
A onor del vero, se consideriamo il termine nella sua accezione comune, la vanità si sposa perfettamente con alcuni atteggiamenti narcisistici degli odierni protagonisti dei campi da gioco; in questo caso, però, desidero riferirmi al concetto di vanitas che trovò sua piena e completa espressione nell’arte barocca.
LA VANITAS NELL’ARTE
L’etimologia della parola vanitas deriva da vanus, che significa vuoto, ma anche futile, inconsistente, effimero. Vi è quindi un duplice senso che allude alla mancanza di corporeità e alla sua assenza di efficacia: “vanitas vanitatum et omia vanitas” (vanità delle vanità, tutto è vanità), recita un passo delle Ecclesiaste, intendendo l’infinita vanità del tutto di leopardiana memoria.
Nella pittura essa ricorre nella valenza di natura morta, caratterizzata dalla presenza di oggetti che simboleggiano la precarietà dell’esistenza e l’inesorabilità del trascorrere del tempo.
Questo tema trovò la sua forma più matura nella prima metà del Seicento: lo scisma protestante, con il carico di incertezze che si portò dietro, la Guerra dei Trent’anni, con lo strascico di epidemie e carestie, e la scoperta dell’America, con la conseguente crisi economica, furono tutti fattori che contribuirono a creare un generale clima di pessimismo.
L’uomo europeo percepì, per la prima volta, la sua condizione tragicamente effimera.
IL DIPINTO
Nelle collezioni della Galleria Sabauda, presso i Musei Reali di Torino, è conservato un dipinto di Jan Brueghel il giovane: “La vanità della vita umana” del 1631.
In questo quadro l’artista fiammingo mette in scena l’apoteosi della vanitas: un caledeiscopio di oggetti che celano allegorie dal carattere moraleggiante.
All’interno di un palazzo che si affaccia su di una piazza gremita di gente, un’immagine di Cristo sostenuta da un putto si trova in mezzo alle fugaci tentazioni terrene, nella forma di tesori, strumenti musicali, giochi, aggeggi scientifici ed artistici. Una donna con il seno scoperto – personificazione della vanitas – sorregge una torcia, mentre un altro putto fa le bolle di sapone ed orologi scandiscono il trascorrere del tempo. È l’esemplare rappresentazione di tutto ciò che non potremmo avere dopo, perchè alla fine la vita è passeggera.
Il particolare interessante sono le due racchette da tennis abbandonate tra quel cumolo caotico di cianfrusaglie.
Un dettaglio curioso che sta ad indicare la popolarità raggiunta da questo gioco, tanto da diventare un emblema riconosciuto e riconoscibile della vanità che contamina il mondo.
LA VANITÀ DEL TENNIS
L’antica simbologia allude ad uno sport che nel corso del tempo è mutato, ma ha conservato intatto il suo carattere vanesio.
Il tennis esige preparazione, ma anche estro, studio, ma anche espressione, allenamento, ma anche talento, esso scaturisce, nella sua forma più completa, da una totale dedizione unita ad evidenti narcisismi maniacali.
I grandi campioni non possono che essere degli ossessivi, divorati dalla loro passione e totalmente asserviti alle regole del gioco.
E se i protagonisti della racchetta sono, per natura, pieni di sé, che dire di Wimbledon, il regno della vanagloria, dove i reali impazzano ed i cerimoniali la fanno da padrone. Qui la forma è tutto: il prato è accurato, il bianco è di rigore, il rispetto dell’avversario è assoluto.
Nel Central Court, il Gotha del tennis, si decide l’eroe della stagione: chi vince a Wimbledon diventa l’emblema dell’annata.
Questo campo ha fatto la storia e ha visto giocare partite entusiasmanti, dai toni epici. Una fra tutte merita di essere ricordata come una delle più grandi imprese del tennis: la vittoria di Andre Agassi nel 1992.
Lui che odiava i prati, era insofferente alle tradizioni e mal sopportava il bianco che era costretto ad indossare, trovò la forma necessaria per vincere un torneo mitico. Battendo due mostri sacri, Becker nei quarti e McEnroe in semifinale, si trovò ad affrontare Goran Ivanišević, una temibile macchina da servizi proveniente dalla Croazia. Il destino del match sembrava già scritto e invece, contro ogni pronostico, Agassi trionfò: il suo primo titolo slam e la sua unica vittoria a Wimbledon.
Da quel momento un ragazzo che fino ad allora era stato solo vana immagine ha vestito i panni della leggenda.
In quell’universo di solitudine chiamato tennis, il re è sempre uno e solo, ma anche il re fa presto a perdere il suo trono: vanità delle vanità, anche il tennis è vanità!